Cosa pensa uno stagista? Ecco le loro incredibili avventure!

Molte organizzazioni non profit hanno una stagista. A volte hanno DEGLI stagisti. Altre volte, troppo spesso a mio parere, hanno TROPPI stagisti. I quali per lo più vengono intesi come “forza lavoro non qualificatissima ma comunque gratuita”. Il ragionamento sembra ovvio: il ragazzo vuole imparare, e noi gli facciamo vedere qualcosina… cosa volere di più?

Spesso però si dimentica il lato umano dello stagista. Il fatto cioè che “il ragazzo senza esperienza” ha spesso una laurea (quando non due o un master), rimane comunque in ufficio otto ore al giorno invece che cercare un normale lavoro, vorrebbe imparare un po’ più del compito (spesso ripetitivo e staccato dal resto dell’ufficio) che svolge.

Bene, per sapere cosa pensano davvero gli stagisti c’è un rimedio: dedicarsi alla lettura di The fabulous adventures of an eternal intern.

Nato dall’idea della mia cara amica Elena (che vi ho già presentato sulle pagine di questo blog), The fabulous adventures of an eternal intern raccoglie le testimonianze sue e di altri stagisti su questo eterno limbo che è lo stage.

Emozionatevi con l’annuncio di uno stage pagato… nel senso che lo stagista deve pagare per farlo. Commuovetevi di fronte ad una mail che annuncia di non essere stati ammessi ad uno stage… per cui non si aveva fatto domanda. E infine, sorridete (ma anche un po’ piangete) quando ad uno dei protagonisti al termine di uno stage viene offerto… un altro stage!

Ho trovato l’idea di Elena bellissima… tanto da diventare uno dei contributori di quello che secondo me può diventare un’ottima raccolta di testimonianze di stagisti e giovani al primo impiego.

Consiglio caldamente la lettura di questo blog. Non tanto ai giovani fundraiser (a loro consiglio di diventare contributori: sul sito tutte le info), ma a tutti quei dirigenti di aziende non profit che abitualmente hanno uno stagista in ufficio. Soprattutto perché, smentitemi se sbaglio, nella mia esperienza ho notato che coloro che cercano stagisti di solito uno stage non l’hanno mai fatto.

Questo blog potrebbe essere una buona base di partenza per farsi un’idea.

Per ora è tutto.

La prossima puntata sarà: i consigli alle organizzazioni non profit su come prendere uno stagista da parte di un ex stagista (il sottoscritto, per l’appunto 😉 ).

“Gradita esperienza preferibilmente… nel profit”

Dal momento che a breve terminerà la mia esperienza lavorativa presso la Johns Hopkins University- SAIS Bologna Center, sto passando un bel po’ di tempo nella lettura degli annunci di lavoro e nel consuente invio di cv. Vorrei condividere con voi alcune osservazioni a rigurardo:

1) Esperienza: la chiedono tutti. Più che comprensibile, meglio assumere persone che conoscano già il lavoro, in modo che posssano portare anche altri spunti… ma davvero ne serve così tanta? Ho trovato annunci che per una posizione qualificata come “junior” chiedono 3-4 anni di esperienza nel settore. La domanda mi sorge spontanea: per essere senior quanta ne devo avere?

2) Contratti: la maggior parte delle volte è un contratto a progetto, spesso di 6 mesi. Capisco la cronica mancanza di fondi delle ONP, capisco la crisi economica, capisco persino la generale incertezza e precarietà che avvolge il terzo settore… ma davvero non si può dare un minimo di stabilizzazione in più? In sei mesi non si fa neanche un bambino, e invece nel terzo settore si chiede di entrare in un’organizzazione, imparare a conoscerla, elaborare un progetto e portare un risultato. Non è un po’ troppo poco tempo? Soprattutto perchè, quando guardo gli annunci in UK o USA, spesso trovo la dizione “permanent”… Credo che ci sia il serio rischio che i professionisti più bravi scelgano di andare nel profit o di emigrare all’stero: una grave perdita per il nostro paese.

3) Il terzo punto è quello che mi soprende di più; molto spesso trovo specificato “gradita precendente esperienza, preferibilmente nel profit”. Ma come nel profit? E’ da quando ho cominciato a interessarmi a questa professione, almeno tre anni fa, che sento dire che il terzo settore si sta professionalizzando, che “bisogna trovare una via italiana di fare fundraising”, che “noi del terzo settore non siamo i buoni, ma preparati professionisti che lavorano per una causa”,…

Poi però, quando si tratta di assumere, non si cercano le persone con esperienza di volontariato, corsi di formazione specifici e un bel po’ di stages (quasi sempre senza retribuzione), ma persone con una esperienza dal “pragmatico” profit. Mi sembra quasi che si dica “ok ragazzi, ora che assumiamo si fa sul serio: non servono idealisti, ma gente che porti risultati”. E costoro possono venire solo dal profit?

Di sicuro però mi sbaglio: probabilmente c’è un altro motivo per cui negli annunci trovo la richiesta di “esperienza preferibilmente nel profit”. Maggiore capacità di interagire con quel mondo? Stimoli e schemi completamente nuovi da portare nell’ONP? Una maggiore motivazione?

Sarei davvero grato se qualche responsabile delle risorse umane o qualche dirigente leggesse questo post e mi aiutasse a chiarire questo punto.

E voi che ne pensate?